La maggior parte delle persone mi conosce grazie a Grace e Mojo Pin, le prime due canzoni dell’album di Jeff Buckley Grace. Ed è un peccato, perché ho scritto centinaia di altre canzoni: ho appena controllato, e nel database BMI ce ne sono 340. Senza falsa modestia, credo che alcune di queste siano al livello di quelle nate dalla collaborazione con Jeff Buckley. Aspettano di essere scoperte, possibilmente grazie al doppio album The Essential Gary Lucas, una retrospettiva che copre 40 anni di musica.
Sono ovviamente orgoglioso dei brani composti con Jeff, era una collaborazione alla pari. Abbiamo scritto una dozzina di pezzi, gli stessi che abbiamo registrato in studio con due grandi artisti italiani, The Niro (Davide Combusti) e il produttore Francesco Arpino. Il disco, The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook, uscito per l’etichetta Esordisco, è stato scelto come album dell’anno da Classic Rock Italia.
Il punto, qui, è che tutte le mie collaborazioni e le canzoni che scrivo da solo nascono come strumentali alla chitarra. La musica viene sempre prima. Poi c’è il testo. Ho una regola: dopo aver scritto qualcosa di interessante ci dormo su. Se la mattina dopo riesco a ricordare la melodia, allora ho qualcosa di buono per le mani. Sono convinto che questi strumentali funzionerebbero anche se non fossero canzoni. Sono composizioni evocative, pittoriche.
Sono stato influenzato da tante cose diverse. M’appassionano musiche e generi diversi, tra cui il rock (soprattutto psichedelico), il blues, il jazz, il folk, l’elettronica, la classica e la world music. Per quanto riguarda la tecnica alla chitarra, ammiro i maestri del Delta come Skip James e i chitarristi folk inglesi come Bert Jansch e Davy Graham, così come il gigante americano John Fahey.
Tutti questi artisti usavano accordature aperte e davano grande importanza al fingerpicking – un aspetto centrale dei miei strumentali e di conseguenza delle mie canzoni. Se invece vogliamo parlare di chitarra elettrica, adoro l’approccio frenetico di gente come Syd Barrett, Lou Reed, Jimi Hendrix, Jeff Beck, Peter Green, i chitarristi che hanno lavorato con il mio primo mentore Don Van Vliet (Captain Beefhart), Hubert Sumlin, Freddy King e così via.
L’influenza principale della mia musica è il blues, sta alla base di tutto quello che ho scritto o arrangiato. L’essenza del blues sta nei cambi di tonalità, nei passaggi microtonali, nelle note spezzate o allungate. So fare tutte queste cose alla chitarra. È un’emulazione della voce umana, di chi piange o grida di dolore o d’estasi. È l’essenza stessa dell’umanità, il terreno comune che tutti possono rivendicare. Tutti abbiamo provato queste cose e continueremo a provarle nel resto del nostro viaggio. Credo che l’esperienza del blues unisca tutti gli esseri umani di quest’isola chiamata Terra. Anche quando suono musica totalmente diversa, come le composizioni per opera di Wagner o il pop cinese anni ’30, c’è sempre un elemento blues.
A proposito dei miei testi: sono sempre stato un lettore vorace, fin da bambino, e scrivere mi viene naturale. Ce l’ho nel dna di giocare con le parole. Sono stato ammesso a Yale dopo aver vinto un premio al National Council of Teachers of English. Una volta lì, come materia di studio principale ho scelto letteratura inglese.
Vorrei citare James Joyce, Shakespeare, Isaac Bashevis Singer, Vladimir Nabokov, Wyndham Lewis, T. S. Eliot e la Bibbia come influenze centrali della mia scrittura, soprattutto per i testi delle canzoni dei Gods and Monsters. Questi scrittori influenzano anche la musica, il suo spirito. Succede la stessa cosa con il cinema. Entra tutto nel mix.
James Joyce, che è morto 80 anni fa, è il mio preferito in assoluto. E l’Ulisse è il mio libro preferito. Leggerlo mi ha sempre dato forza e confortato, l’ho fatto tante volte nel corso degli anni. Alcune delle mie frasi preferite vengono proprio dal viaggio interiore di Leopold Bloom, tra cui: «La storia è un incubo dal quale cerco di svegliarmi», «Ogni vita è una moltitudine di giorni, un giorno dopo l’altro. Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini, ma sempre incontrando noi stessi», e la mia preferita: «Dio è un grido in mezzo alla strada».
Sono i sentimenti che animano la mia scrittura, anche se non ho mai citato quelle parole direttamente. Sono influenze enormi, e raccontano il gioco della vita come se fosse una mitologia in formazione, come se il nostro comportamento quotidiano specchiasse le fatiche e i trionfi delle divinità greche e romane.
Intanto, ecco cosa vi voglio raccontare di 10 canzoni di The Essential Gary Lucas.
1Fata Morgana
Il nome si riferisce a una particolare illusione ottica, una chimera, un fuoco fatuo. Nel linguaggio nautico, Fata Morgana è il miraggio della terra che può apparire nell’oceano quando le condizioni meteo sono pessime. Questo miraggio incantava i marinai e li portava alla morte, convinti di aver trovato terra in mezzo a acque tempestose. Il nome vero e proprio, invece, viene dal ciclo arturiano e ha a che vedere con Morgan Le Fay, una strega malvagia della corte di Re Artù condannata a vivere in un palazzo sotto il mare, dove cospirava per affondare le navi che si avvicinavano ai miraggi che evocava.
Ho trovato l’ispirazione per scrivere questo brano nel 2002, durante una residenza artistica di una settimana al Quebec City Summer Festival. Una notte, in hotel – il mio posto preferito dove scrivere – ho trovato l’arpeggio di chitarra, usavo un’accordatura modale in Do di mia invenzione. Quella melodia suggeriva una violenta tempesta emotiva, mi ha fatto venire in mente l’immagine di una succuba, una femme fatale, una tentatrice malvagia che con il suo fascino incanta uomini e li porta alla morte. I Gods and Monsters hanno registrato una versione molto rock in studio: il batterista Billy Ficca (Television), in particolare, ha registrato una bella take nello stile di Gene Krupa, mentre Ernie Brooks (Modern Lovers) ci dava dentro col basso. Credo sia una delle mie migliori parti vocali (ho iniziato a perfezionare la mia tecnica quando ho capito che non potevo contare a lungo su cantanti di un certo livello).
2Evangeline
Ho scritto questa canzone in un momento molto difficile, attorno al 1995. L’ho registrata per la prima volta per un disco acustico che sarebbe uscito l’anno dopo. Dopo aver pubblicato tre dischi molto apprezzati – Skeletons at the Feast, Gods and Monsters e Bad Boys of the Arctic – mi sembrava di aver esaurito la forza creativa. Ero seriamente preoccupato per il mio futuro artistico. Avevo lasciato un lavoro sicuro, ma molto noioso per immergermi completamente nella musica. Avevo la veneranda età di 36 anni, e c’ero dentro fino al collo. Mi sembrava di avere poche possibilità. La mia carriera era instabile, le prospettive di guadagno risicate e lontane nel tempo. Mi piaceva andare in tour, soprattutto in Europa, ma sembrava che i concerti non portassero a nulla, agenti di booking apparentemente affidabili si erano rivelati tutt’altro che affidabili e così via. Quando pensavo di aver toccato il fondo, ho trovato l’ispirazione per scrivere questa canzone, una vera peana allo Spirito Santo della Creatività: nel mio caso, personificato da una musa che si chiama Evangeline, un nome che evoca il divino e il sacro. Quest’energia femminile e trascendentale, che nella fede ebraica è nota come Shekinah, è la forza nascosta dell’universo. Con quell’energia ho superato momenti difficili. Mi ha dato la forza di continuare con la musica, proprio quando ero pronto a mollare.
Nel 2003 l’ho ri-registrata con i Gods and Monsters. Poi è uscita nel mio disco Coming Clean. La versione che state ascoltando è con Ernie Brooks e Jonathan Kane, rispettivamente al basso e alla batteria, e i cori del tecnico del suono Sasha Van Oertzen. “Trust in Her / you must endure / the seasons ever changing / face the frost / the hollow cost / of life spent re-arranging / evening bells and wishing well the one who won’t need naming / Evangeline comes claiming”. Avete notato il riferimento all’Olocausto nel quarto verso? E quello all’assolo di Beefheart che mi ha fatto entrare nella musica all’ottavo? Lo sapevo!
3Coming Clean
È la title track del disco del 2006 dei Gods and Monsters. Il testo ha un tema simile a quello di Evangeline: “Riding on a steel rail / twisting past oblivion / you bend before the wind so frail / giving me the strength to live again”. Parla della forza che ci trasmettiamo uno con l’altro. La canzone mette in campo anche i concetti di rinascita spirituale e reincarnazione: “Like a pebble on the beach / unto a grain of sand / thrown and sown just out of reach / moving freely in His hand / All of us come clean you know / There at journey’s end / waiting for the wave to flow / waiting for a sign to start again”. A differenza di Evangeline, però, qui si parla di un lui, non di una lei (Dio è un grido in mezzo alla strada).
Journey’s End è un testo teatrale di R. C. Sheriff ambientato nelle trincee della Prima guerra mondiale che ho trasformato in un film diretto dal grande James Whale (La moglie di Frankenstein). In realtà, il nome dei Gods and Monsters viene proprio da una battuta de La moglie di Frankenstein (è uno dei miei film preferiti), nella scena in cui due scienziati pazzi fanno un brindisi:“To a New World of Gods and Monsters!” e “Rising from oblivion / Do not go gentle into that good night”, un riferimento a una delle poesie più conosciute di Dylan Thomas, e anche una delle citazioni preferite di Don Van Vliet (Captain Beefheart). Vedete come tutti questi riferimenti si intrecciano nella mia musica? Tutto torna.
Registrare questo pezzo mi ha divertito molto, soprattutto le sovraincisioni di chitarra nel break strumentale. L’ho inviata all’amico Jerry Harrison (Talking Heads) per remixarla e insieme al suo fonico ET Thorngren ha fatto un gran lavoro. Così grande che l’ho invitato a entrare nel gruppo come tastierista e produttore per il disco The Ordeal of Civility e il tour in Olanda e Russia. Ma questa è un’altra storia…
4Follow
Forse è la mia ballata più dolce. L’ho scritta per dare conforto ai malati di AIDS. Dal 1977 vivo nel West Village, a Manhattan, dove negli anni ’80 la comunità è stata duramente colpita dal virus. Il mio migliore amico dei tempi del college è stato una delle prime vittime. Pensavo a lui quando ho scritto questo pezzo. Inizia con dolcezza e poi si apre in un passaggio rock. “When you’re feeling low / got no place to go / when the love light doesn’t show / and your friends don’t want to know / Follow “. Diversi testi delle mie canzoni sono ricchi di energia positiva, che è lì per aiutare chi è disperato (è successo a tutti, è il prezzo che si paga per l’essere umani). Follow è un inno quieto per tirare su le persone e possibilmente aiutarle a guarire, è la cosa migliore che si possa fare per gli altri. Ho scritto testo e musica all’inizio degli anni ’90, la suonavo insieme al cantante Richard Barone, la prima persona che ho scelto per sostituire Jeff quando se n’è andato dalla band, nel 1992. Richard la cantava meravigliosamente, poi è andato via anche lui. Così, quando è arrivato il momento di registrarla con i Gods and Monsters, all’inizio del 2000, indovinate a chi è toccato prendere il suo posto?
È un pezzo importante per tante persone, anche se nel testo non nomino mai direttamente l’Aids. C’è solo un’allusione nel passaggio: “And you will fast endure / the sickness without cure / Follow free follow sure / In this run through in this race / in this time and in this space / rise to break this petty pace / choose to find a state of Grace”. Faccio anche un riferimento a un passaggio famoso del Macbeth e a Grace di Jeff e Gary. Non posso farci niente, è lo studente di letteratura che è in me!
Qualche anno dopo averla pubblicata, la comica Sandra Bernhard, fantastica nel film di Scorsese Re per una notte, mi ha invitato a suonarla con lei per una manifestazione a favore dei matrimoni gay. Era qui a New York, ha suonato anche Lou Reed. Mi ha presentato dicendo: «Ecco il tizio che ha scritto le hit di Jeff Buckley!». La reazione del pubblico mi ha commosso.
5Grace
Forse è la mia canzone migliore, senz’altro la collaborazione più famosa. Lavorare con un artista del calibro del giovane Jeff era una gioia assoluta, almeno all’inizio. Quando l’ho incontrato ho usato la stessa regola che applico a tutte le collaborazioni: lascio al collega completa libertà artistica, voglio che faccia quel che vuole con la musica che gli propongo. Non sono un dittatore: quando si tratta di collaborare, devi rispettare le scelte del tuo partner, soprattutto se non sei nella stessa stanza a scrivere un pezzo verso dopo verso (mi è capitato raramente).
Per quanto riguarda Grace, avevo scritto metà dello strumentale già prima di incontrare o sapere dell’esistenza di Jeff Buckley. Dopo averlo conosciuto, ha accettato di diventare il cantante dei Gods and Monsters (era appena saltato un grosso accordo con la cantante di una major) e ho dovuto scrivere del materiale per lui. Ho finito di comporre lo strumentale in una settimana, nel giugno del 1991. Si intitolava Rise Up to Be. Poi ne ho scritto un altro, And You Will. Erano titoli provvisori, un modo per ricordarli, ma è evidente che cercavo di influenzare Jeff, volevo convincerlo a venire a New York per realizzare il suo potenziale con i God and Monsters, una band che amava.
È arrivato in città in estate, ad agosto, aveva il testo e tutta la melodia vocale per entrambi gli strumentali che gli avevo mandato via posta. Mi sembravano fighissimi, così ho organizzato una session ai Krypton Studios con la mia sezione ritmica del periodo, Jared Nickerson al basso e Tony Lewis alla batteria, per fare una demo, la stessa che ascoltate nel disco. Stare seduto in studio ad ascoltare Jeff cantare e incidere quell’armonica dylaniana mi ha dato i brividi. Quando ho lasciato lo studio ho pensato: Questa musica scuoterà il mondo! Ed è successo!
6After Strange Gods
Il titolo completo di The Wasteland (La terra desolata), il leggendario libro del 1934 di T. S. Eliot, era After Strange Gods: A Primer of Modern History. Qui un modernista conservatore, devoto alla chiesa anglicana, fa una panoramica sulla letteratura contemporanea. È un saggio lungo un libro in cui parla di quella che per lui era la differenza tra narrativa morale e immorale. C’è anche una frase ampiamente considerata antisemita: «Ragioni di razza e religione rendono un gran numero di ebrei inclini al libero pensiero indesiderabili». Più avanti ha ritrattato, ma quell’affermazione è stata per molto tempo una macchia sulla sua carriera.
Io sono un ebreo incline al libero pensiero, ho una grande passione per la letteratura e apprezzo molto la poesia di Eliot, anche se aborro le tracce di antisemitismo nelle sue prime opere. Il titolo di questo saggio mi è rimasto dentro, pensavo fosse buono per una canzone. Per questo, ho deciso di scrivere un pezzo che parlasse della mia band. ”Around the world / around the horn / the cup is filled / the lamb is born / into a flock / a herd a show / of hands now please / mind how you go”. Nel testo ci sono tanti riferimenti biblici e un po’ di Arthur Mille: “After the climb / before the fall / you feel a chill / the hounds all call you” and “So take up fast / thy staff and rod / and hurry now / After Strange Gods”. Anche ai Led Zeppelin: “Outside the pearl / inside the song / remains the same / until it’s gone”.
A guidare la carica c’è l’eccezionale cantante d’avanguardia Dina Emerson, che in precedenza aveva lavorato con Meredith Monk. Qui dà davvero tutto. Poi ci sono la batteria di Jonathan Kane e il basso di Ernie Brooks. Anthony, il fratello di Jonathan, suona l’armonica, mentre Gregg Bendian le percussioni. Il brano apre il mio secondo disco del gruppo, Bad Boys of the Arctic, uscito nel 1994. Ha ricevuto il massimo dei voti da Stereo Review sia per le canzoni che per il suono (strano, gran parte di quel disco è stato registrato in studi di fortuna, con pochi soldi).
7King Strong
È la prima traccia ufficiale dei Gods and Monsters. È stata registrata attorno al 1988 negli Unique Studios di New York. Al tempo il gruppo esisteva solo nella mia testa. La immaginavo come una band di fusion jazz-rock con due bassi. Un paio d’anni prima avevo registrato a Londra due canzoni, Skin the Rabbit e la cover di Astronomy Domine dei Pink Floyd con Rolo McGinty dei Woodentops alla voce. Dopo cinque anni passati a suonare e gestire Don Van Vliet (Captain Beefheart) lavoravo come copywriter alla CBS Records ed ero alla ricerca di qualcosa che desse una scossa alle mie noiosissime giornate. Mi ero separato da Don Van Vliet (che oltre ad essere un compositore visionario, un cantante e un poeta, era anche un eccellente pittore) nel 1984, dopo averlo piazzato in una grande galleria d’arte di New York. Ero entrato nella Magic Band per fare musica, non per piazzare opere d’arte e invece lui dopo tanti anni passati a suonare musica avant-garde voleva solo dipingere. Ci siamo separati e mi sono finalmente dedicato alla mia musica, una cosa severamente proibita a chi suonava con Don.
Questo strumentale è frutto dell’idea di realizzare un valzer jazz potente e metallico come la versione di John Coltrane di Afro-Blue di Mongo Santamaria, che secondo me è stata d’ispirazione per King Kong di Zappa. Cito entrambi i temi li cito nel bel mezzo del pezzo, una e una sola volta, giusto per vedere se state attenti. Il 95% della musica restante è mia. Con me ci sono l’incredibile Keith Leblanc (Tackhead) alla batteria, e Jared Nickerson e Paul Now al basso. Il chitarrista dei Tackhead, Skip McDonald, mi ha aiutato nella registrazione. In pratica, dopo aver inciso batteria e basso, ho attaccato la chitarra a un Marshall e ho messo giù strati e strati di musica, un muro di chitarre ululanti. Ho preso un mix del pezzo, ho fatto varie copie su cassetta e le ho lasciate ad alcune delle stazioni radio della zona, tipo WFMU, WKCR e WNYU. E per Dio, l’hanno suonato alla grande. C’è stato persino un articolo su Billboard. È stato incoraggiante. Ero sulla buona strada.
8Dream of a Russian Princess
È l’ultimo giorno del 1991. Mi sveglio alle 4 del mattino (e quindi è già il 1992, per lo meno in Olanda) nell’atelier di Amsterdam di Joel Ver. È l’amico migliore che ho in Olanda, che all’epoca è il posto dove preferisco esibirmi in Europa, il primo Paese in cui ho ricevuto un qualche riconoscimento. Ci suono fin dal 1990. Immagino che il legame con Beefheart, con cui ho girato il Paese nel 1980, sia stato utile ad aprire qualche porta, giacché lassù lo considerano olandese, sebbene sia nato negli Stati Uniti.
Torniamo al 1991. Sono alla fine di un estenuante tour di tre mesi nel Regno Unito e nell’Europa continentale e riprendo le forze nello studio di Joel, un bravissimo pittore che molti anni prima ha occupato una fabbrica abbandonata e l’ha trasformata in uno studio e in una casa per lui e per i suoi amici. Sono le 4 del primo giorno dell’anno, mi sveglio da un sogno in cui ho visto il viso radioso di un’elegante e ingioiellata nobildonna russa del XIX secolo, una bellezza incorniciata da una parte di chitarra acustica strana e intensa che sento nella testa. Prendo la chitarra dal pavimento vicino al letto e ci lavoro su. La musica è triste, con alcuni passaggi intensi in fingerpicking e pennate appassionate, fino a evocare un’emozione nobile, di trionfo, per poi ricadere in malinconia e dissonanza. È dolceamara, come gran parte della musica del resto.
Penso sia una delle mie composizioni migliori, una lettera d’amore a una donna sconosciuta e misteriosa. Se ho segnato una principessa russa forse è stato per via di Don Van Vliet: una volta m’ha detto che la sua donna ideale era un’ebrea russa.
9Flavor Bud Living
È stato questo pezzo di Don Van Vliet (Captain Beefheart) a dare il via alla mia attività di chitarrista. Avevo visto il primo concerto a New York di Captain Beefheart and the Magic Band. Fecero tre sere in un piccolo club chiamato Ungano nell’Upper West Side di Manhattan. Li avevo visti e avevo capito che volevo unirmi a loro. Avevo sentito parlare di Don a scuola da un amico chiamato Fred Perry. Suo fratello Richard aveva prodotto il primo album di Don Safe as Milk nel 1976. Fred mi aveva visto per strada nei pressi della Syracuse University e aveva notato che tenevo sottobraccio il primo album dei Move. Lui teneva una chitarra acustica dentro a una custodia di cartone su cui aveva scritto con un pennarello rosso CAPTAIN BEEFHEART AND THE MAGIC BAND, una sigla che non avevo mai sentito prima.
In seguito, dopo quei concerti newyorchesi, tornai a casa pensando che se fossi mai diventato un musicista, avrei voluto suonare con quel tizio. Lui e il gruppo erano favolosi. Avevo visto grandi concerti rock, i Rolling Stones con Brian Jones, Janis Joplin e Paul Butterfield, Frank Zappa con i Mothers, ma quel che avevo visto quella sera stava in un’altra categoria. Erano incredibilmente bravi e compatti. E così da allora, ogni volta che suonavano dalle mie parti, andavo a vederli. Ho poi conosciuto Don e abbiamo fatto amicizia. Intanto zitto zitto mi esercitavo per padroneggiare la sua musica, che è parecchio complicata.
Quando nel 1974 Don ha suonato nella mia città come ospite di Frank Zappa al Syracuse War Memorial, l’ho portato a mangiare costine di maiale a mezzanotte in un barbecue sul retro di una casa sgangherata nel ghetto nero. È stato allora che gli ho detto che avrei voluto suonare nella sua band. Mi ha invitato a raggiungerlo a Boston qualche giorno dopo portando la chitarra. Ho suonato per lui nella sua stanza d’hotel dopo un concerto con Frank. Sono passati un altro po’ di anni, ma alla fine mi ha chiamato per registrare l’album del 1980 Doc at the Radar Station dove ho azzeccato Flavor Bud Living alla prima take. La mia performance è stata apprezzata dalla stampa musicale e ora dell’album successivo, Ice Cream for Crow del 1982, facevo parte della Magic Band. Grazie al processo di apprendimento della sua musica ho sviluppato una tecnica estesa alla chitarra che ho applicato alla mia musica dopo essermi separato da Don.
La versione contenuta nell’antologia è stata registrata dal vivo al Beacon Theater di New York durante il tour negli Stati Uniti e in Europa tra la fine del 1980 e il gennaio del 1981. Il teatro era pieno zeppo, ricordo che fra il pubblico c’era David Byrne. A un certo punto Don mi ha presentato, gli altri musicisti se ne sono andati e sono rimasto solo sul palco. Ero nervoso, ma mi piaceva suonare da solo – un uomo contro il mondo intero – mi sembrava d’essere un gladiatore in un’arena. Alla fine della registrazione si sente il boato del pubblico: non c’è niente di meglio per un artista. Non vedo l’ora di tornare a fare concerti, quando finirà la pandemia.
10Music for “The Golem”
Adoro le colonne sonore dei film, è una passione ereditata dai miei genitori che le collezionavano: quella di Jerry Goldsmith per Exodus e Les Parapluies de Cherbourg di Michel Legrand, per dirne due. Seguendo il loro esempio ho iniziato a collezionare molte colonne sonore di James Bond fatte da John Barry (From Russia with Love è la mia preferita) per poi crearne di mie, iniziando in tenera età col mio amico, tastierista e compositore Walter Horn. Assieme creavamo nastri di cupa musique concrete e ad Halloween li suonavamo dal secondo piano della casa dei miei, giusto sopra l’ingresso, per spaventare a morte chi veniva a chiedere «dolcetto o scherzetto?».
Molti anni dopo, nel 1989, quando ero solista da un anno, ho ricevuto una commissione dalla Brooklyn Academy of Music. Il compito era combinare la mia musica con un’altra forma d’arte. Ho subito pensato di comporre un accompagnamento musicale dal vivo per il film horror muto espressionista tedesco del 1920 chiamato The Golem e ho invitato Walter a prendere parte al progetto. Da ragazzo avevo letto di questo film leggendario sulle pagine di una rivista di cinema horror, e mi ero detto: «Wow, un Frankenstein ebreo, che figata è?». Dato il mio amore per il cinema classico e le leggende popolari ebraiche, sapevo che era il film giusto per me – mi stava proprio chiamando. Ho trovato una copia del film al Museum of Modern Art qui a New York, l’ho fatta trasferire su videocassetta e l’ho duplicato per Walter, che nel frattempo si era trasferito a Boston. Eravamo un tag-team di wrestling. Abbiamo suddiviso il film in varie sequenze su cui abbiamo lavorato separatamente prima di unire le forze per trasformare il tutto in un accompagnamento live coerente che ha debuttato al Museum of the Moving Image di Astoria nell’autunno del 1989.
Inutile dirlo, è stato un gran successo e in seguito ho rifatto quella musica tutta alla chitarra, dato che Walter aveva un lavoro diurno e gli era impossibile esibirsi in maniera continuativa con me. L’ho poi suonata dal vivo in festival e locali di tutto il mondo, in oltre 20 Paesi: alla Royal Festival Hall di Londra, a Tel Aviv e Gerusalemme, a Mosca e San Pietroburgo, alla Biennale di Venezia e al Teatro Verdi di Firenze e poi a Praga, la casa del Golem. Il mio ultimo concerto prima del lockdown è stato nel marzo 2020, quando ho suonato accompagnando il film alla Cornell University di Ithaca, NY. Itaca come saprete è una piccola isola nel mar Ionio, l’isola verso cui naviga il guerriero Ulisse (Odisseo) per tornare a casa. Tutto torna.